“... I principi di così grand’uomo ...”
Mario Quadraroli
Dal catalogo della mostra
"Luigi Volpi, 1937 - 2009", Bipielle Arte, Lodi, 2014
“... I principi di così grand’uomo furono l’anno 1937 nel contado di Lodi, nella Parrocchia di Santa Maria del Sole, di padre detto Egidio lavoratore del legno e naturale persona. Costui avuto questo figlio al quale pose nome Luigi, lo allevò secondo lo stato suo costumatamente. Quando fu all’età di dieci anni pervenuto, mostrava in tutti gli atti ancor fanciulleschi una vivacità e prontezza di ingegno straordinario, che lo rendeva grato non pure al padre, ma anco alla madre Giuseppa e a tutti quelli ancora che nel contado e fuori lo conoscevano. Spinto dall’inclinazione della natura all’arte del disegno, per le lastre et in terra o in su l’arena del continuo disegnava alcuna cosa di naturale, o vero che gli venisse in fantasia...”
Questo è quanto raccontano le cronache dell’epoca. Comunque sembra proprio vero che Luigi Volpi abbia iniziato prima a disegnare che a scrivere e già da piccolo contribuiva al sostentamento della numerosa famiglia barattando piccoli lavori con generi di prima necessità. “... Eccellentissimo nel genere suo e alla maniera buona delle sue pitture - continuano le cronache - a Volpi massimamente, come desideroso d’acquistar fama, fu cagione di che mediante un continuo studio imparò tanto che si può annoverare fra i primi nell’arte del pittare...” Basta con questo disquisire, che il Volpi non è Giotto ed io non son Vasari, e riportiamo dunque l’artista alla fredda realtà dei nostri tempi.
Incontro Volpi a metà degli anni Sessanta e questo mi ha consentito di conoscerne la produzione artistica e l’evolversi sin dall’inizio. Ho sempre considerato il suo creare come un momento legato alla velocità del suo muoversi, del come lui si spostasse nell’arco della giornata.
Dopo il periodo accademico, da cui tutti passano, il dipingere per lui è frenetica azione segnica, una pittura di gesto, veloce, che guarda con interesse Bacon e Sutherland.
In quel periodo Volpi ha ancora la patente, guida la macchina, è perfettamente inserito nei meccanismi del sistema: il mercato, le mostre, i premi di pittura e l’insegnamento. Poi il Volpi elimina l’automobile, rinuncia alla patente, usa esclusivamente i mezzi pubblici e la bicicletta. A questo punto la sua arte si fa più meditata, affronta i temi sociali, l’emarginazione e le lotte per l’emancipazione, ritornando alla pittura figurativa.
Attraversa così tutti gli anni Settanta e buona parte degli Ottanta fino a quando decide di muoversi a piedi e lo fa spesso: prima nella zona dove aveva trasferito la sua residenza, la valle de Lambro tra le colline di San Colombano, poi attraverso l’Appennino fino al mare, i luoghi della sua villeggiatura.
Questo è il comportamento che lo accompagna fino agli ultimi anni della vita, il momento in cui la sua ricerca artistica si fa più rigorosa e le tecniche rinascimentali riprendono su Volpi il sopravvento: la pittura viene eseguita a olio su tavola e, qualche volta, su tela. Impiega settimane intere per realizzare lastre calcografiche, lavora ogni santo giorno dall’alba al tramonto per elaborare vedute minuziosamente raccolte sui taccuini dei suoi viaggi (a piedi), dà forma alle idee riproponendo “... Tutte le cose della natura vive col disegno semplicemente, come ci sono prodotte da lei...”. Il suo lavoro è anche il prodotto dell’attività dell’avambraccio e della mano: ho visto Volpi eseguire, sul tavolo da lavoro, movimenti ampi col braccio per tracciare le linee che determinavano la composizione del disegno nel suo insieme, poi con la mano dedicarsi invece ad una elaborazione più particolareggiata, con tratti brevi in un campo d’azione più ristretto, sia che fosse il segno fragile e inciso della punta metallica, sia che fosse il morbido scorrere della matita.
Chiarezza di pensiero, dunque, e disciplina d’azione, se si considera la sua produzione qualcosa di più di una semplice annotazione di un ricordo, “un foglio di studio”.
Per Volpi il lavoro costituiva la traccia di un’esperienza mentale, la ferita cicatrizzata di un evento psichico da lui vissuto e che veniva riproposto per essere rivissuto da noi, dagli osservatori delle sue opere, ciascuno secondo la propria sensibilità.