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“... I principi di così grand’uomo ...”
Mario Quadraroli

“... I principi di così grand’uomo ...”

Mario Quadraroli

Dal catalogo della mostra

"Luigi Volpi, 1937 - 2009", Bipielle Arte, Lodi, 2014

 

 

“... I principi di così grand’uomo furono l’anno 1937 nel contado di Lodi, nella Parrocchia di Santa Maria del Sole, di padre detto Egidio lavoratore del legno e naturale persona. Costui avuto questo figlio al quale pose nome Luigi, lo allevò secondo lo stato suo costumatamente. Quando fu all’età di dieci anni pervenuto, mostrava in tutti gli atti ancor fanciulleschi una vivacità e prontezza di ingegno straordinario, che lo rendeva grato non pure al padre, ma anco alla madre Giuseppa e a tutti quelli ancora che nel contado e fuori lo conoscevano. Spinto dall’inclinazione della natura all’arte del disegno, per le lastre et in terra o in su l’arena del continuo disegnava alcuna cosa di naturale, o vero che gli venisse in fantasia...”

 

Questo è quanto raccontano le cronache dell’epoca. Comunque sembra proprio vero che Luigi Volpi abbia iniziato prima a disegnare che a scrivere e già da piccolo contribuiva al sostentamento della numerosa famiglia barattando piccoli lavori con generi di prima necessità. “... Eccellentissimo nel genere suo e alla maniera buona delle sue pitture - continuano le cronache - a Volpi massimamente, come desideroso d’acquistar fama, fu cagione di che mediante un continuo studio imparò tanto che si può annoverare fra i primi nell’arte del pittare...” Basta con questo disquisire, che il Volpi non è Giotto ed io non son Vasari, e riportiamo dunque l’artista alla fredda realtà dei nostri tempi.

 

Incontro Volpi a metà degli anni Sessanta e questo mi ha consentito di conoscerne la produzione artistica e l’evolversi sin dall’inizio. Ho sempre considerato il suo creare come un momento legato alla velocità del suo muoversi, del come lui si spostasse nell’arco della giornata.

 

Dopo il periodo accademico, da cui tutti passano, il dipingere per lui è frenetica azione segnica, una pittura di gesto, veloce, che guarda con interesse Bacon e Sutherland.
In quel periodo Volpi ha ancora la patente, guida la macchina, è perfettamente inserito nei meccanismi del sistema: il mercato, le mostre, i premi di pittura e l’insegnamento. Poi il Volpi elimina l’automobile, rinuncia alla patente, usa esclusivamente i mezzi pubblici e la bicicletta. A questo punto la sua arte si fa più meditata, affronta i temi sociali, l’emarginazione e le lotte per l’emancipazione, ritornando alla pittura figurativa.

 

Attraversa così tutti gli anni Settanta e buona parte degli Ottanta fino a quando decide di muoversi a piedi e lo fa spesso: prima nella zona dove aveva trasferito la sua residenza, la valle de Lambro tra le colline di San Colombano, poi attraverso l’Appennino fino al mare, i luoghi della sua villeggiatura.

 

Questo è il comportamento che lo accompagna fino agli ultimi anni della vita, il momento in cui la sua ricerca artistica si fa più rigorosa e le tecniche rinascimentali riprendono su Volpi il sopravvento: la pittura viene eseguita a olio su tavola e, qualche volta, su tela. Impiega settimane intere per realizzare lastre calcografiche, lavora ogni santo giorno dall’alba al tramonto per elaborare vedute minuziosamente raccolte sui taccuini dei suoi viaggi (a piedi), dà forma alle idee riproponendo “... Tutte le cose della natura vive col disegno semplicemente, come ci sono prodotte da lei...”. Il suo lavoro è anche il prodotto dell’attività dell’avambraccio e della mano: ho visto Volpi eseguire, sul tavolo da lavoro, movimenti ampi col braccio per tracciare le linee che determinavano la composizione del disegno nel suo insieme, poi con la mano dedicarsi invece ad una elaborazione più particolareggiata, con tratti brevi in un campo d’azione più ristretto, sia che fosse il segno fragile e inciso della punta metallica, sia che fosse il morbido scorrere della matita.

 

Chiarezza di pensiero, dunque, e disciplina d’azione, se si considera la sua produzione qualcosa di più di una semplice annotazione di un ricordo, “un foglio di studio”.

 

Per Volpi il lavoro costituiva la traccia di un’esperienza mentale, la ferita cicatrizzata di un evento psichico da lui vissuto e che veniva riproposto per essere rivissuto da noi, dagli osservatori delle sue opere, ciascuno secondo la propria sensibilità. 

Ricordo scolastico, Luigi Volpi alle scuole elementari di via  San Giacomo, Lodi, 1945/46
Ricordo scolastico, Luigi Volpi alle scuole elementari di via San Giacomo, Lodi, 1945/46
Luigi Volpi (a-sinistra) e Felice Vanelli, Lodi Piazza-castello, inizio anni '50
Luigi Volpi (a-sinistra) e Felice Vanelli, Lodi Piazza-castello, inizio anni '50
Luigi Volpi in tram, Milano, inizio-anni-'80
Luigi Volpi in tram, Milano, inizio-anni-'80
Luigi Volpi nella casa di Valbissera, San-Colombano, metà anni '90
Luigi Volpi nella casa di Valbissera, San-Colombano, metà anni '90
La pittura come modo di essere
Marina Arensi

La pittura come modo di essere

Marina Arensi

Dal catalogo della mostra

"Luigi Volpi, 1937 - 2009", Bipielle Arte, Lodi, 2014

 

 

«La pittura è un modo di essere» diceva, con il tenace gusto per il dibattito divenuto parte della sua persona. «È stata il mio modo di evolvermi, ho percorso la sua strada insieme a quella esistenziale». Alla luce di questa affermazione contenuta in una vecchia intervista (1), la mostra che riepiloga l’arte di Luigi Volpi a cinque anni dalla scomparsa rappresenta un omaggio doveroso per il suo essere stato a Lodi nella seconda metà del Novecento uno degli artisti significativi. Ed è anche l’occasione per individuare, per la prima volta se consideriamo il suo percorso dagli esordi fino alla scomparsa nel marzo 2009, le sfaccettature del discorso espressivo maturato di pari passo con l’attraversamento dei tempi e dei luoghi.

 

Luigi Volpi, per tutti Gigi almeno a Lodi, era nato il 18 marzo 1937 in via Santa Maria del Sole. Aveva poi vissuto l’infanzia in piazzale Barzaghi, abbastanza vicino all’Adda per scoprire, nelle scorribande di bambino dalla inesauribile creatività e leader della numerosa tribù dei fratelli, il fascino della presenza di Giuseppe Vailetti intento alla pittura sulle rive del fiume; e per tentare di emularlo negli ingenui bozzetti dipinti con il colore dei pastelli diluito con l’acqua, quando negli anni difficili del dopoguerra l’ingegno sopperiva alle ristrettezze.

 

I suoi più antichi dipinti risalgono alla metà degli anni Cinquanta e da qui muove il percorso nella pittura cui corrisponde l’intensa vita di incontri e la scelta di solitudine nell’isolamento delle colline di San Colombano; la riservatezza insieme alla curiosità del confronto; la fedeltà alle ragioni dell’arte e la vulnerabilità emotiva, percepibile da quanti lo conoscevano da vicino.

 

L’ avvio del suo percorso pittorico coincide con l’interesse per il ritratto concentrato sui volti dei familiari, uno scavo negli affetti con prove verosimiglianti dedicate ai fratelli e alla madre; protagonista, quest’ultima, anche di un dipinto del 1961 che guarda oltre la pura rappresentazione, verso una coscienza del colore cercata nella vivacità degli accostamenti. Lo stesso per le nature morte, gli oggetti sparsi sulle prospettive alte dei piani negli accesi contrasti cromatici, e dello stesso periodo i chiaroscurati paesaggi che vedono il giovane artista nel clima di un realismo quasi magico. Prima ancora, nel 1956, c’erano stati un illustrativo “Ritorno del fante” e un “Lavorante” presentato al Premio San Fedele da un diciannovenne “Volpe”, questo il suo giovanile pseudonimo, che avvertiva il richiamo della vivacità milanese respirata alle lezioni serali della Scuola d’Arte del Castello Sforzesco e ai corsi liberi di nudo all’Accademia di Brera.

 

A Milano Gigi Volpi si trasferisce alla fine degli anni Cinquanta, incontrandovi il terreno di germinazione per la passione politica che ne avrebbe accompagnata la crescita culturale e artistica, innestata su quel “gusto del fare” da lui citato come eredità della città natale; anche se la pittura svilupperà questo orientamento solo negli inchiostri del 1965 con le “Maternità atomiche” dalla deformazione espressionista preoccupata delle minacce della “guerra fredda”, e nelle tematiche del lavoro e del disagio mentale.

 

Il capoluogo lombardo viveva in quel tempo il miracolo economico, riflesso nella dinamicità di una scena artistica internazionale. Volpi, ancora così vicini i giorni della pittura nelle campagne dell’Adda con Ugo Maffi e Felice Vanelli che insieme a lui si avviavano a impersonare a Lodi la nuova generazione di pittori, incontra a Milano Tino Vaglieri e con lui gli artisti del gruppo di corso Garibaldi, con la loro ricerca nella temperie del Realismo Esistenziale: in essa, alle spalle la rivoluzione di Sutherland e Bacon, si erano riconosciuti gli autori che si allontanavano dai modelli del realismo politicamente impegnato e dell’astrattismo, riportando l’attenzione sull’uomo nella nuova società turbata dalle alienazioni del progresso. Anche Luigi Volpi, tra i nomadismi di giovane pittore in cerca della propria personalità, prende ad alterare la raffigurazione, quando le forme taglienti e i colori contrastati delle nature morte parlano di una realtà enigmatica impressa nella deformazione delle cose. È una riflessione che matura contemporaneamente alla scelta dell’attivismo politico, nel tempo dell’impegno ideologico che avrebbe condotto al Sessantotto con l’esperienza delle comuni e dei collettivi vissuta da Volpi coerentemente con le scelte esistenziali.

 

Germoglia di lì a poco quello che può considerarsi il suo primo vero ciclo tematico, dopo un periodo di sospensione della pittura quando la vicenda del Realismo Esistenziale si esaurisce in una ricerca più formale che sostanziale. Negli anni del dibattito che avrebbe portato nel 1978 alla rivoluzionaria Legge Basaglia, Volpi accosta la realtà manicomiale: un’esperienza forte a contatto con i malati quando ancora in Italia si parlava poco di Outsider Art, e dalla quale nascono i grandi ritratti dei ricoverati. L’intento di denuncia si unisce qui alla maturazione di un nuovo capitolo stilistico con il definitivo ritorno alla figurazione naturalistica. Le figure si stagliano senza compiacimenti descrittivi sugli sfondi, spesso obliquamente attraversati dalla linea di separazione tra l’ombra e la luce. Ciascuna mantiene un’individualità che la malattia non ha cancellato, fissata nell’isolamento che aleggerà anche nel ciclo successivo di dipinti quando Volpi prenderà a ritrarre secondo lo stesso modello compositivo i personaggi del quotidiano, con la freddezza della luce artificiale che riveste la scena dalla ricorrente immagine della lampada.

 

La declinazione di nuove pagine pittoriche giunge per Volpi nei primi anni Ottanta, dopo il periodo dell’insegnamento che sul piano artistico lo vede assorbito dal fascino della grafica, con esiti di qualità nell’acquaforte. Dall’incisione, il confronto con il problema della luce si sposta alla pittura, ed è probabilmente l’atteggiamento di grande sorvegliatezza tecnica e mentale richiesto dalla pratica incisoria a spostare l’interesse di Volpi dal contenuto alla forma, quando l’innamoramento per Wermeer e Chardin lo spinge a riprendere i pennelli per dare avvio al suo periodo più maturo.

 

Tra i primi esiti di questa meditazione sono gli interni abitati dalle figure femminili nella gelida luce, più angosciosa quando nei toni notturni si posa nel vuoto silenzioso degli ambienti, sui pavimenti a piastrelle dove si allungano le ombre: un guardarsi dentro mettendosi in relazione con il mondo con un’analisi minuziosamente attenta del quotidiano. Dipinti nella nitida resa coloristica sui fondi trattati come per gli antichi con colla di coniglio e gesso di Bologna, gli oggetti dapprima in dialogo con le figure divengono poi protagonisti unici di composizioni di accentuato realismo, trasformate dalla luce in immagini fuori dal tempo.

 

Degli stessi anni del volontario eremitaggio sui colli banini è anche il rifiorire dell’interesse per il paesaggio: nelle immagini con i cieli alti sulle prospettive ribassate, e poi negli scorci più dettagliati, la mano del pittore è guidata dall’anelito verso il controllo della forma, verso il possesso della tecnica che consente la piena oggettività rappresentativa. Spesso tratti da “appunti di viaggio”, tracciati anche nei lunghi percorsi a piedi sulle strade d’Italia quando la filosofia di vita gli consentirà di dire «non ho fatto rinunce, ho solo eliminato cose non essenziali, conquistando la libertà “da”, divenuta libertà “di”», i paesaggi abiteranno ancora le tele di Luigi Volpi. Nel definitivo ritorno a Lodi il suo sguardo tornerà a posarsi, forse acquietato, sulle ampie anse dell’Adda, sui greti dei giorni infantili e delle prime speranze per un futuro nella pittura. Alle spalle o meno pungenti le disillusioni, il fluire lento dell’acqua racconta di una quiete sognata nel riflettersi degli alberi gonfi di aria, dipinti con esattezza lenticolare. E l’immergersi degli ultimi anni nell’arte dei grandi del passato, dipingendo e incidendo “alla maniera di” con pagine di silenziosa poesia racconta come l’abbia cercata ancora nella pittura. Per Luigi Volpi, anche irrinunciabile scelta di vita. 

 

 

(1) Articolo pubblicato sul settimanale “Lodi e dintorni”, 2002 

Luigi Volpi con l'opera "il ritorno del fante", Lodi, 1957
Luigi Volpi con l'opera "il ritorno del fante", Lodi, 1957
Luigi Volpi (a-sinistra) e Felice Vanelli in Piazza della Signoria, Firenze, 1952
Luigi Volpi (a-sinistra) e Felice Vanelli in Piazza della Signoria, Firenze, 1952
Da sinistra: Felice Vanelli, Luigi Volpi, Ugo Maffi, Attilio Ronchetti, Lodi, 1958
Da sinistra: Felice Vanelli, Luigi Volpi, Ugo Maffi, Attilio Ronchetti, Lodi, 1958
Da sinistra: Luigi Volpi, Felice Vanelli e Ugo Maffi, Lodi, 1960
Da sinistra: Luigi Volpi, Felice Vanelli e Ugo Maffi, Lodi, 1960
Materntà atomica, 80x70 cm, 1965, grafite e inchiostro su carta
Materntà atomica, 80x70 cm, 1965, grafite e inchiostro su carta
L’artista e il suo tempo
Beppe Cremaschi

L’artista e il suo tempo

Beppe Cremaschi

Dal catalogo della mostra

"Luigi Volpi, 1937 - 2009", Bipielle Arte, Lodi, 2014

 

 

All’utopia di capovolgere il mondo aveva sostituito il comandamento a non tradire se stesso, privilegiando l’etica dei principi alla mediocrità del compromesso, metodo ampiamente adottato nella speculazione politica ed economica. Luigi Volpi si è attenuto, per una vita, al modello dell’artista non disposto a barattare la propria libertà con i vantaggi di piccolo cabotaggio. Ha preferito ritagliarsi una dimensione tutta sua e in silenzio, senza atteggiarsi ad eroe, difendere con coerenza l’aspirazione ad una purezza incontaminata, anche a costo di vivere da estraneo in mezzo a tanti, di venire frainteso e di correre il rischio dell’incomprensione.

 

La pittura lo aveva stregato da bambino come una bella fiaba a colori, raccontata a colpi di pennello da Giuseppe Vailetti, paesaggista tra i più amati del Novecento lodigiano, quando piantava il cavalletto all’aperto per inquadrare scorci del panorama di tutti i giorni. Quella magia gli aveva lasciato la convinzione che il mondo potesse essere compreso e interpretato attraverso il filtro della propria sensibilità, superando i semplici contorni dell’apparenza. A Milano i corsi della Scuola superiore d’Arte del Castello Sforzesco e le lezioni di nudo all’Accademia di Brera avrebbero dato stabilità alle sue doti istintive, che avevano guidato le prime avventure pittoriche affrontate, in compagnia di amici come Ugo Maffi e Felice Vanelli che condividevano la sua passione, con l’entusiasmo e la spavalderia di chi è allenato alle tasche sempre vuote e alla testa zeppa di sogni. In bicicletta, la cassetta dei colori nel portapacchi, le tavolette di legno e le tele legate alla canna, nello zainetto le poche cose necessarie ad affrontare la giornata: pedalate e pedalate alla scoperta di realtà altrimenti irraggiungibili (siamo negli anni Cinquanta), all’inseguimento di una gloria lontana ma possibile a patto di scavalcare i confini della piccola provincia e di guardare a orizzonti più stimolanti. Poi alla “Venturi” di Modena il diploma di maestro d’arte e a Milano il debutto da docente alla Scuola di Arti ceramiche “Cova”.

 

Nel capoluogo lombardo, dove vive, Luigi Volpi matura esperienze destinate ad imprimere un timbro indelebile sul suo costume artistico e culturale. Anche a Milano, come in America e in tante parti d’Europa, esplode la contestazione giovanile. La scintilla scaturita negli Usa con la condanna della guerra nel Vietnam innesca nel Sessantotto un fenomeno di proporzioni planetarie. Ad essere incendiato è l’intero sistema sociale, basato sulla logica del profitto e dei consumi, su una visione classista e autoritaria che perpetua anacronistiche ingiustizie, falsi miti e bigotti conformismi. Le università tengono allora a battesimo la stagione delle grandi speranze. Spontaneismo e movimenti d’avanguardia alimentano tensioni, crisi ed inquietudini, anche derive da incubo, che minano dalle fondamenta le gerarchie ingessate del quadro politico, tutto un modo di intendere la vita destinato a venir spazzato via dalla ventata di novità introdotta da una circolazione delle idee e dell’informazione di sorprendente forza persuasiva.

 

I fermenti studenteschi si incrociano con le attese del mondo del lavoro, quello che si sente sfruttato ed escluso dalla ricchezza prodotta. Lo scenario della lotta condotta dal binomio scuola-fabbrica cambia tragicamente con le bombe di piazza Fontana, in quel lugubre 12 dicembre 1969 che inaugura l’epoca delle trame stragiste. In Italia si affacciano minacciosi i fantasmi del Cile di Pinochet e della Grecia del colonnelli, mentre oscure strategie si fanno paladine di un capitalismo senza morale che gioca sul clima del terrore per riguadagnare le posizioni perdute. La contestazione, che puntava alla conquista di nuovi diritti, deve ora concentrarsi sulla difesa degli spazi democratici messi in pericolo. Ed anche il mondo dell’arte, pur con le contraddizioni tipiche di un ambiente spesso carico di ingenuo fanatismo e di sproporzionato protagonismo, si aggrega in un impegno che promette trasformazioni epocali. Luigi Volpi, sensibile alle lezioni di Bacon e Sutherland, poi esponente del “realismo esistenziale” come Tino Vaglieri e Mino Ceretti, entra nella Comune milanese di via Scaldasole, al Ticinese, dove la dinamica del collettivo annulla le distanze tra sfera pubblica e privata. È il tempo della rivoluzione urlata e della ribellione libertaria, dove “tutto è politica” e il Primo Maggio è un corteo con il Libretto Rosso di Mao sventolato a bandiera della rivoluzione prossima ventura. Luigi Volpi, che nella Comune di via Scaldasole conosce la donna, Ida Amadei, che sposerà nel municipio di Lodi (celebra le nozze l’allora vicesindaco Oreste Lodigiani, socialista, un futuro da assessore e da numero due della Regione Lombardia, cui seguirà un doppio mandato alla Camera dei deputati), nel clima del “realismo impegnato” lavora al progetto di una rivista, “Falce e martello”, che l’editore Giangiacomo Feltrinelli vuole ispirata ad una analoga pubblicazione cubana. Partecipa all’elaborazione di manifesti di propaganda ideologica ed affronta con la pittura, seguendo l’indagine fotografica di Gianni Berengo Gardin, il tema della condizione manicomiale, diventato questione di scottante attualità grazie alla teoria sperimentata in campo psichiatrico da Franco e Franca Basaglia. Prendono forma sulla tela opere di forte impatto comunicativo (ad esempio “L’urlo” che fa da emblema alla disperazione di un ricoverato dell’istituto di Cesano Boscone) che anche Lodi conoscerà in occasione di una mostra al “Gelso”, la galleria d’arte contemporanea di via Marsala pilotata con smisurato coraggio da Giovanni Bellinzoni.

 

Intanto l’impegno politico profuso per tanti anni si decanta, lasciando spazio al ripiego nel privato, alla ricerca di approdi sicuri dove trovare risposte al bisogno mai appagato di valori sui quali dare un senso alla vita. Anche per la scelta della sua compagna di calarsi nel movimento spirituale che in India ha per guida Rajnes Bhagwan, Volpi si allontana dalla realtà milanese per isolarsi sulle colline di San Colombano in uno stabile che a Valbissera, dove si venera la Madonna della neve, faceva da seminario estivo per i chierici pavesi. Anni di intensa attività creativa in una sorta di volontario eremitaggio vengono intervallati da un viaggio in California, dove il maestro Bhagwan ha creato una comunità, e da chilometriche escursioni a piedi, alla riscoperta dell’ambiente collinare e delle anse del Lambro che gli ispirano dipinti ed incisioni di nitida qualità, in cui la natura respira con l’armonia di un’architettura rinascimentale e sprigiona colori da incanto, offrendogli abbondanti occasioni per arricchire i suoi preziosi taccuini di viaggio, dove sono riportati, con meticolosa eleganza, appunti utili per il lavoro in studio. Luigi Volpi approfondisce la sua già notevole padronanza delle tecniche incisorie, di cui aveva dato in passato convincenti dimostrazioni (a Lodi, ad esempio, in una bella mostra curata da Tino Gipponi al “Vanoni” di via Strepponi) e si misura “alla maniera” di Carlo Magnani, Fede Galizia, Catan e Chardin, rilegge in chiave grafica le nature morte del Baschenis. Incide sulla lastra angoli di Toscana e della Costiera Amalfitana, nature morte di sapore domestico nobilitate da magici equilibri e atmosfere che rimandano ai misteri del silenzio. Continua a dipingere e ad incidere anche quando fa ritorno nella sua Lodi, dove è radicata l’antica famiglia con la quale ha sempre mantenuto stretti rapporti e conta su un selezionato gruppo di amici. Ama dispensare consigli ed incoraggiamenti ai giovani artisti, che gli vogliono bene come se fosse un fratello maggiore. Con i soldi ha il rapporto di sempre: gli servono solo per il minimo indispensabile, per il resto non gli interessano per niente. Si accontenta di poco, soprattutto è un uomo libero che ha conservato il piacere della curiosità e di ritrovarsi con qualcuno con cui ricostruire il passato e anticipare il futuro da tradurre in una nuova serie di lavori. Un pensiero ricorrente è il tema della famiglia: persone che si ritrovano unite per venire immortalate in gruppo, felici di sentirsi attratte da quella forza che forse solo il cuore e l’arte sanno cogliere ed esaltare. Un progetto e basta.

Figura, 30x21, 1969, matita su carta
Figura, 30x21, 1969, matita su carta
Figura, 30x21, 1969, matita su carta
Figura, 30x21, 1969, matita su carta
Manifesto del progetto “Un monumento a Roberto Franceschi”,  Luigi Volpi tra i quaranta firmatari del progetto presentato alla Biennale di Venezia del 1977
Manifesto del progetto “Un monumento a Roberto Franceschi”, Luigi Volpi tra i quaranta firmatari del progetto presentato alla Biennale di Venezia del 1977
Valbissera (San Colombano al Lambro), 10x11 cm, 1992, inchiostro su carta
Valbissera (San Colombano al Lambro), 10x11 cm, 1992, inchiostro su carta
Luigi Volpi (a sinistra) e Giovanni Bellinzoni, Lodi, Galleria “Il Gelso”, 1973
Luigi Volpi (a sinistra) e Giovanni Bellinzoni, Lodi, Galleria “Il Gelso”, 1973
Nota alla pittura di Luigi Volpi
Mario De Micheli

Nota alla pittura di Luigi Volpi

Mario De Micheli 

dal catalogo della

mostra Personale alla Galleria d’arte Il Cavallo, Livorno, 1975 

 

 

Per dipingere l’uomo bisogna avere coscienza della sua presenza nella storia; si può averne anche una coscienza in negativo, considerare tale presenza nel mondo alla stregua di una vera e propria disgrazia biologica, come accade in Bacon; ma dipingere l’uomo, il suo volto, i suoi gesti significa constatare comunque, con rabbia o con disgusto o fiducia, la sua ineliminabile presenza nel contesto della realtà.

La sparizione totale dell’uomo dalla vicenda dell’arte contemporanea corrisponde alla convinzione radicale del suo definitivo dissolvimento dentro il processo distruttivo della società di massa; riaffermare con evidenza l’immagine vuol dire quindi non giudicare ineluttabile questo processo, o per lo meno rifiutarlo, contrastarlo.

Protesta, rivolta, rivoluzione sono così i termini più frequenti in cui si manifestano questi atteggiamenti anche a livello espressivo. Il dipingere l’uomo da uno qualsiasi di questi punti di vista dipende quindi da una decisione che precede la scelta estetica. L’atto estetico consiste perciò nel dare fisionomia formale a una realtà extra-estetica; la realtà, appunto, della storia di cui l’uomo è protagonista. Questa è la condizione primaria di un’arte oggettiva o perlomeno di un’arte problematica che non dia già per scontata la nostra dissoluzione nell’essenza annichilente del sistema.

Ha un senso tutto ciò, voglio dire un simile discorso, per una nota alla pittura di Volpi? Penso senz’altro di si. Non si tratta infatti di una pittura “spontanea”, bensì una pittura nata all’interno di riflessioni analoghe a queste, riflessioni maturate anche nel corso di esperienze politiche e sociali da cui neppure l’abbandono dell’arte, quale strumento sublimante dell’oppressione, è stato escluso. Il dipingere l’uomo, come oggi Volpi l’intende e come lo fa, è proprio il risultato della presa di coscienza che anche nella dimensione dell’arte, come in ogni altra dimensione, è possibile riaffermare il valore attivo sia pure nei modi di una verità tutt’altro che cerebrale e euforica.

Ecco dunque il senso delle immagini di Volpi, dei suoi personaggi di solitudine, d’angoscia, di risentimento. Ciò che importa è soprattutto la loro precisa e incancellabile presenza, che non è in nessuna maniera di natura manifesta. Se Volpi li definisce con tanta acutezza, con tanto circostanziato puntiglio, non è per ostentare un virtuosismo esecutivo, bensì per un’esigenza che ha radice nelle premesse stesse del suo particolare rapporto col mondo nel suo modo di vedere e partecipare ai motivi inquieti della realtà, ai conflitti che ci coinvolgono. 

Questa è la ragione per cui egli tende in ogni sua opera a concentrare il significato in un solo personaggio che, per questo fatto, diventa un personaggio-situazione, sfuggendo per ciò stesso al descrittivo e all’aneddotico.
È di qui che si giustifica lo «stile» di Volpi, il suo linguaggio dove, nonostante il carattere analitico, nulla è superfluo: essenziale è la sua visione perché è una visione di sintesi della pluralità degli accadimenti reali, sintesi ideale cioè e non di pure abbreviazioni plastiche.

Sono questi, mi pare, i problemi e le preoccupazioni che alimentano la ricerca di Volpi: ma tutto ciò resterebbe ancora privo di significato se di tali problemi e di tali preoccupazioni egli non fosse capace di fare una verità espressiva. Ora, nei suoi quadri, Volpi dimostra di esserne capace, sino a raggiungere una limpida intensità d’enunciazione, sino a fare cioè di ogni problema e preoccupazione un lucido momento di meditativo e persuasivo realismo. 

Da sinistra: Giorgio Seveso, Luigi Volpi e Mario De Micheli, Milano, Galleria Ciovasso, primi anni '90
Da sinistra: Giorgio Seveso, Luigi Volpi e Mario De Micheli, Milano, Galleria Ciovasso, primi anni '90
Urlo uno, 60x30 cm, 1972, olio su tela
Urlo uno, 60x30 cm, 1972, olio su tela
Nota alla pittura di Luigi Volpi
Giorgio Seveso

Nota alla pittura di Luigi Volpi

GIORGIO SEVESO

Dal catalogo

“Quaderni Artistici Galleria Armanti”, Varese, 2000 

 

 

La realtà (e dunque la vita) appare, tra le mani di Luigi Volpi, in una misura di così intensa verità, così fulgidamente esatta e precisa, da essere assolutamente un’altra cosa, da volgersi in una trasfigurazione magica, in una visione metafisica sospesa fuori dal mondo nell’argentea immobilità di un’aria perfettamente cristallina, pura e gentile come per un’incantata allucinazione domestica...

Ci sono più cose tra la terra e il mare di quante ne contengano tutte le filosofie umane, ha scritto il vecchio Shakespeare. E davvero nulla è più ingannevole, in questo caso, della semplicità della filosofia visiva che si distende nelle splendide tele e nei magnifici fogli di Volpi.

É proprio qui, per me, che la sua arte gli somiglia da sempre, che specchia, insomma, il suo modo di pensare e di amare l’esistenza, il lavoro, gli altri. Antico e insieme modernissimo, semplice e al tempo stesso sofisticato e raffinatissimo, il mestiere di Luigi è fatto di poesia (una poesia di acuta concentrazione lirica tra sentimento e pensiero), ma è anche sempre intrecciato, da quando lo conosco, ad una umanissima, confortante solidarietà con la complessità degli uomini, con la concretezza antropologica del nostro destino.

Grandi qualità dunque, le sue, di un artista grande d’occhio e di cuore. 

Alla maniera di Fede Galizia, 6,5x8 cm, 2000, acquaforte
Alla maniera di Fede Galizia, 6,5x8 cm, 2000, acquaforte
Nota alla pittura di Luigi Volpi
Flavio Arensi

Nota alla pittura di Luigi Volpi

Flavio Arensi

Dal catalogo

“Quaderni Artistici Galleria Armanti”, Varese, 2000 

 

 

Meditando sull’opera di Luigi Volpi, mi è parsa chiara una considerazione: la sua migliore lettura critica l’ho fornita io. Mi spiego.
In una lettera a L. von Ficker, Ludwing Wittgeinstein confessa: «il mio lavoro consiste in due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante». Traslando il concetto puramente logico in campo estetico (magari con qualche forzatura), ci si scontra con l’opinione per cui l’opera mai eseguita sia il vero capolavoro di un’artista: ciò dipende (lo accenno molto sinteticamente) dall’antico concetto platonico di mimesis fondante tanta parte del cammino estetico occidentale. Il paradosso, segnalato da Irwin Panofsky, per cui un Raffaello senza mani ha maggior valore sulle sue opere, è suggestivo e potrebbe ben utilizzarsi oggi (con tutt’altra valenza) nei confronti di quei molteplici artisti dilettanti che affollano gli eventi culturali delle nostre città (e a volte musei).

Di sillogismo in sillogismo potremmo dunque pervenire ad un’ipotesi altrettanto interessante: la migliore delle critiche d’arte non deve scriversi bensì restare nell’animo dello studioso. Essendo il lavoro del critico “semplicemente” di traduzione del linguaggio icastico dell’arte in proposizioni grammaticali e sintattiche (tali da permettere la lettura del quadro attraverso il racconto della vicenda), qualsiasi redazione perderà parte del significato originario; come, infatti, accade per molte parafrasi linguistiche se s’incorre nel rischio di eccedere o sminuire il testo autografo. Di certo se ne perdono alcuni connotati, oppure se ne guadagnano altri, poiché è normale che linguaggi diversi non possano avere esatta corrispondenza. È arduo convenire in parole compiute le scaturigini emozionali di una creazione artistica. In quest’ottica appare chiaro l’esempio di Panofsky, o la dichiarazione di Wittgeinstein ripotata in principio. Il silenzio, la non creazione, è il più alto risultato possibile.

Ecco perché, non avendo scritto alcuna presentazione al lavoro di Luigi Volpi, è inconfutabile che il suo miglior commentatore, il critico più vicino al suo personale mondo, sia il sottoscritto: nessuno potrà dire che io abbia frainteso i suoi quadri!
Se ne ricordi il Volpi quando dovrà affidare la stampa del suo prossimo catalogo. Come i pittori, sono pochi i critici che possono vivere i silenzi, quasi nessuno senza pane. 

Nota alla pittura di Luigi Volpi
Furio Rumualdi

Nota alla pittura di Luigi Volpi

Furio Rumualdi

Dal catalogo

“Quaderni Artistici Galleria Armanti”, Varese, 2000 

 

 

Il mio amico Luigi è un haiku. Breve ma grande. Il secondo aggettivo riguarda l’incisore che lui è. È la parte che conosco. Faccio il venditore di acqueforti. La prima acquaforte del Luigi da me edita (a tempo perso faccio anche l’editore di acqueforti) è un’acquaforte del cavolo. Con un bellissimo cavolo in primo piano e dietro un bellissimo paesaggio. L’approccio al cliente era perfetto. “Lo vuole un paesaggio del cavolo?” Era il titolo. Un paesaggio del cavolo. Io sono unilaterale nell’amicizia. Non accetto di essere ricambiato fino a quando non lo decido io. Con Luigi decisi molto presto. Complice il titolo e il suo riso. Rise come rise Basho, grande maestro hokku (haiku si scrive anche hokku). Il paesaggio del cavolo lo fece ridere. Così rise il Luigi. Lo avevo accettato come amico. Era uno spirito superiore come lo sono io. Naturalmente in questi cinque anni ci siamo arrabbiati. Una volta non l’ho fatto dormire per la rabbia. In quella occasione ha fatto una delle acqueforti più belle. Come tutti i grandi spiriti e come tutti i veri amici Luigi ed io non parliamo. La sua cultura è sociale e utopista. Quando mangiamo e io rientro negli zuccheri mi piace seguire i segni dei suoi sogni. Di fatto il mio modo di comunicare con lui è la misura, base per altezza, della matrice, il soggetto, il prezzo. Poi conosco una maniera sopraffina di farlo arrabbiare. Monologhi a parte. Due samurai vecchi si comunicano cose. L’hokku o haiku sono cose. Immagini. Il sentimento è proibito. Anche il correlativo oggettivo non è corretto. La rana che si tuffa nello stagno e il rumore dell’acqua vanno visti. Il rumore viene dopo. Ma questo, oltre che dal vecchio Basho, è capito solo da chi ha fatto studi tecnici: il Luigi ed io. Il fatto che lui sia un Haiku all’acquaforte e io il suo venditore di haiku è, tutto sommato, un fatto primario. Perché fatti secondari non ci sono. Se non in prospettiva nella regola hokku delle immagini incise dal Luigi. È una regola paziente. Non comunica nulla. È. È perfetto il suo modo di fare acqueforti? La domanda è mal posta. In ogni caso non rispondo. Almeno su questo punto. Un haiku di Luigi non si commenta. Si vende. Posso descrivere la faccia del cliente. Ma non credo che qui si debba. Ho scritto queste poche righe per un amico. Lunga vita alla sua mano. Se no cosa vendo. 

La verza, 20x19 cm, 1982/1986, acquaforte
La verza, 20x19 cm, 1982/1986, acquaforte
L’incisione di Luigi Volpi
Paola Fenini

L’incisione di Luigi Volpi

Paola Fenini

Dal catalogo della mostra

"Luigi Volpi, 1937 - 2009", Bipielle Arte, Lodi, 2014

 

 

Per dipingere l’uomo bisogna avere coscienza della sua presenza nella storia; si può averne anche una coscienza in negativo, considerare tale presenza nel mondo alla stregua di una vera e propria disgrazia biologica, come accade in Bacon; ma dipingere l’uomo, il suo volto, i suoi gesti significa constatare comunque, con rabbia o con disgusto o fiducia, la sua ineliminabile presenza nel contesto della realtà.

 

La sparizione totale dell’uomo dalla vicenda dell’arte contemporanea corrisponde alla convinzione radicale del suo definitivo dissolvimento dentro il processo distruttivo della società di massa; riaffermare con evidenza l’immagine vuol dire quindi non giudicare ineluttabile questo processo, o per lo meno rifiutarlo, contrastarlo.

 

Protesta, rivolta, rivoluzione sono così i termini più frequenti in cui si manifestano questi atteggiamenti anche a livello espressivo. Il dipingere l’uomo da uno qualsiasi di questi punti di vista dipende quindi da una decisione che precede la scelta estetica. L’atto estetico consiste perciò nel dare fisionomia formale a una realtà extra-estetica; la realtà, appunto, della storia di cui l’uomo è protagonista. Questa è la condizione primaria di un’arte oggettiva o perlomeno di un’arte problematica che non dia già per scontata la nostra dissoluzione nell’essenza annichilente del sistema.

 

Ha un senso tutto ciò, voglio dire un simile discorso, per una nota alla pittura di Volpi? Penso senz’altro di si. Non si tratta infatti di una pittura “spontanea”, bensì una pittura nata all’interno di riflessioni analoghe a queste, riflessioni maturate anche nel corso di esperienze politiche e sociali da cui neppure l’abbandono dell’arte, quale strumento sublimante dell’oppressione, è stato escluso. Il dipingere l’uomo, come oggi Volpi l’intende e come lo fa, è proprio il risultato della presa di coscienza che anche nella dimensione dell’arte, come in ogni altra dimensione, è possibile riaffermare il valore attivo sia pure nei modi di una verità tutt’altro che cerebrale e euforica.

 

Ecco dunque il senso delle immagini di Volpi, dei suoi personaggi di solitudine, d’angoscia, di risentimento. Ciò che importa è soprattutto la loro precisa e incancellabile presenza, che non è in nessuna maniera di natura manifesta. Se Volpi li definisce con tanta acutezza, con tanto circostanziato puntiglio, non è per ostentare un virtuosismo esecutivo, bensì per un’esigenza che ha radice nelle premesse stesse del suo particolare rapporto col mondo nel suo modo di vedere e partecipare ai motivi inquieti della realtà, ai conflitti che ci coinvolgono. 

Alla maniera di Baschenis, 6x9 cm, acquaforte, 2000
Alla maniera di Baschenis, 6x9 cm, acquaforte, 2000
Alla maniera di Baschenis, 35x50 cm, olio su tela, 2006
Alla maniera di Baschenis, 35x50 cm, olio su tela, 2006
Alla maniera di Juan Sanchez Cotan, 6x6 cm, acquaforte
Alla maniera di Juan Sanchez Cotan, 6x6 cm, acquaforte
 Alla maniera di Juan Sanchez Cotan, 30x36 cm, 2000, olio su tela
Alla maniera di Juan Sanchez Cotan, 30x36 cm, 2000, olio su tela
Segni di un percorso d’arte
Beppe Cremaschi

Segni di un percorso d’arte

Beppe Cremaschi

Dal catalogo della mostra

"Luigi Volpi, 1937 - 2009, DISEGNI", Chiesa dell’Angelo, Lodi, aprile 2016

 

 

Da una valanga di disegni, finora custoditi nel segreto dell’archivio personale,emerge valorizzata la statura di Luigi Volpi, capace di coniugare le sensibilità della sua epoca con il rigore del discorso artistico. Riportare sui binari di una logica almeno cronologica i numerosi documenti lasciati dal pittore-incisore lodigiano, per proporli in una selezione dimensionata alle esigenze di una mostra, non si è rivelata operazione semplice, anche se ripagata dal piacere della scoperta e dell’affettuoso omaggio ad un personaggio dal carattere schivo, timido ed introverso, disposto ad aprirsi solo con una ristretta cerchia di amici, con i quali dialogare e confrontarsi, confessare sogni e progetti, tenere sempre viva la voglia di aggiungere nuovi episodi ad una antologia già fitta di capitoli. A Luigi Volpi, morto nel 2009 all’età di 72 anni, Lodi ha tributato in tempi recenti, grazie al determinante contributo della sua famiglia cui era legatissimo, due pregevoli retrospettive, che hanno dato risalto ad un interprete della grafica e della pittura che nulla aveva concesso all’improvvisazione, avventurandosi nella conquista di un proprio codice espressivo attraverso la ricerca meticolosa, quasi maniacale, di una padronanza tecnica di assoluto rilievo. L’aveva coltivata nell’isola felice del suo studio (a Lodi, a Milano, a San Colombano e ancora a Lodi), dove l’aspirazione alla perfezione aveva avuto la meglio sulla zavorra del conformismo e sul peso della solitudine, sulle tentazioni del superfluo e sulle lusinghe delle mode. Anche i ricatti del mercato erano rimasti estranei alla sua pratica creativa, mai ripiegata su se stessa, che nel disegno trovava le basi sicure per fondere nell’equilibrio delle forme e dei colori, nel ritmo e nell’eleganza del segno, gli eterni ideali dell’armonia, della forza espressiva, del potere coinvolgente della comunicazione. Proprio grazie alla solida impalcatura della sua grafica, Volpi era riuscito nell’intento di mescolare sulla tavolozza o di incidere sulla lastra specialmente la sostanza dei soggetti rappresentati, l’aria e la luce, le magiche atmosfere cariche di attesa e di silenzio tanto in sintonia con la sua indole.

 

La selezione effettuata tra le centinaia di fogli lasciati da Volpi, sulla quale si articola questa mostra all’Angelo, si è posta l’obiettivo di illustrare un aspetto fondamentale della complessa attività svolta dall’artista lodigiano dagli anni Sessanta fino agli ultimi mesi di vita. Paesaggi, autoritratti, ritratti e nature morte assumono sulla carta, pur nella forma rapida del bozzetto o del progetto, la dignità dell’opera compiuta, affrontata con varie tecniche (inchiostri, carboncino, sanguigna, pastelli, gessetti, penna biro e matita) e su formati di differente misura, a volte anche con il ricorso alla pennellata di colore e al collage. In non pochi casi lo stesso soggetto appare riprodotto in una successione di ingrandimenti che colpisce per la precisione con cui è stata eseguita. Così come non lascia indifferenti la qualità cui Volpi è spesso approdato proprio nell’esercizio grafico, magari utilizzando ritagli di carta di poco conto: un livello formale di così alta fattura da non alimentare dubbi sul volto finale dell’opera, una volta sottoposta all’intervento della pittura o dell’incisione.

 

Da uomo sensibile ai movimenti che avevano agitato le stagioni della sua vita, Volpi ha spesso tratto ispirazione dai fermenti culturali e dai miti comuni a generazioni (erano gli anni Sessanta-Settanta) che guardavano con l’ingenua fiducia degli utopisti ad un progresso che cancellasse, con un energico colpo di spugna, disuguaglianze ed ingiustizie di vecchia data. Aveva così abbandonato quel realismo intriso di venature magiche che aveva caratterizzato le fasi dell’esordio in ambito lodigiano per orientarsi, trapiantato nell’effervescente circuito culturale di Milano, su un’arte politicamente impegnata, poi abbandonata sotto l’influenza dei modelli espressionisti e del realismo esistenziale che si rifacevano alle lezioni di Sutherland e Bacon. Testimoniano questi periodi i fogli percorsi da sciabolate di inchiostro nero, che denunciano l’alienazione dell’individuo, e le angoscianti immagini di un’umanità condannata all’emarginazione a causa della malattia mentale, inquadrata dal medico veneziano Franco Basaglia in una rivoluzionaria teoria che prevedeva una radicale riforma della disciplina psichiatrica, a cominciare dalla soppressione dell’anacronistico sistema manicomiale in vigore in Italia.

 

Dall’arte che aveva fatto da megafono alla rabbiosa denuncia delle storture prodotte da una società schiava delle regole del mercato e devastata dalla logica del profitto alla riconciliazione con una poetica di stampo naturalistico. Correvano gli anni Ottanta, quelli del riflusso e del ritorno al privato, fenomeni conseguenti alle delusioni provocate dal fallimento di tante battaglie dichiarate nello spirito del Sessantotto, e Volpi poneva al centro dei suoi interessi una quotidianità popolata di personaggi, ambienti ed oggetti calati in una dimensione di raccolto intimismo, animata da calibrati tagli di luce e da soluzioni formali di solido equilibrio compositivo. L’artista lodigiano riscopriva nelle pagine della più nobile interpretazione della natura morta maestri dalla levatura del parigino Chardin, della milanese Fede Galizia e del bergamasco Baschenis. A loro si ispirava per esprimere specialmente attraverso il gesto grafico una maturità artistica ampiamente raggiunta. Il disegno, sempre di essenziale importanza nel suo itinerario creativo, si accumulava con felici schizzi sull’agenda che Volpi portava sempre con sé, per annotare appunti di architetture paesaggistiche dal maestoso respiro classicheggiante, vedute rassicuranti dove placare le turbolenze sofferte in un lungo percorso altalenante tra focose illusioni e cocenti delusioni. Il disegno rifletteva profondamente questo bisogno di ordine, il mai sopito desiderio di valori autentici. Su tutti, quelli offerti dalla famiglia e dagli amici, da esaltare nelle tracce impresse sulla carta e trasferite poi sulla lastra incisa o sulla tela dipinta: immagini destinate ad entrare nell’archivio del tutto particolare riservato agli affetti ed ai sentimenti più veri, per occuparvi un posto fisso, il più importante. 

Luigi Volpi nello studio di via Lanzone Milano, 1973
Luigi Volpi nello studio di via Lanzone Milano, 1973
Luigi Volpi nello studio della Cascina Barona Milano, 1979
Luigi Volpi nello studio della Cascina Barona Milano, 1979
Luigi Volpi durante l’installazione di una scultura dell’amico Adelio Maronati Milano, primi anni ‘70
Luigi Volpi durante l’installazione di una scultura dell’amico Adelio Maronati Milano, primi anni ‘70
Luigi Volpi (a destra) e Luigi Biffi alla Galleria 23 Cremona, 1974
Luigi Volpi (a destra) e Luigi Biffi alla Galleria 23 Cremona, 1974
Luigi Volpi nell’orto San Colombano al Lambro, Anni ‘90
Luigi Volpi nell’orto San Colombano al Lambro, Anni ‘90

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